Vergarolla, 75 anni fa

Il 18 agosto 1946, 75 anni fa, sulle spiagge di Pola si consumava la strage di Vergarolla: una serie di ordigni bellici disinnescati da tempo vennero fatti deflagrare da una mano rimasta ufficialmente ignota. Erano le 14.15 quando un’esplosione devastante lasciò sul terreno decine di morti, quasi la metà dei quali mai identificati. E, tra questi, non pochi bambini. In quel 18 agosto i polesani si godevano il mare e le gare di nuoto organizzate da una società sportiva italiana; la guerra era terminata da tempo ma la situazione del confine orientale non era ancora definita e Pola attendeva di conoscere il suo destino. In questa cornice è stata inquadrata da subito la vicenda, frutto di una strategia della tensione che segnò la comunità italiana rendendo ineluttabile l’esodo da Pola.

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Frutti avvelenati

Una giornata di follia, ai limiti del colpo di stato. Più di qualcuno, accendendo ignaro la televisione mercoledì sera, potrebbe aver pensato di rivivere la penultima stagione di House of cards: nella giornata in cui Camera e Senato degli Stati Uniti, in seduta congiunta, erano impegnati a ratificare il voto dei grandi elettori, e quindi il risultato che dal 20 gennaio porterà Joe Biden alla Casa Bianca, una folla di sostenitori di Trump si è raccolta davanti al Campidoglio, sede del parlamento, per protestare contro quella che lo stesso presidente uscente ha sempre descritto come una frode, una vittoria macchiata da brogli (ma su cui non sono mai state presentate prove certe).

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Vaccini e prospettive

Accompagnate da una copertura mediatica degna della visita della Regina sono arrivate in Italia le prime dosi del vaccino anti-covid: poco meno di diecimila fiale, una spedizione simbolica – una prova generale, secondo Il Foglio – ma fortemente voluta per dare un segnale di speranza in vista del nuovo anno e di unità di intenti tra i Paesi UE (una sintonia guastata da Slovacchia e Ungheria, che senza particolari motivi hanno deciso di anticipare di un giorno le prime somministrazioni).

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Sanremo in parole

Quella che si apre è la settimana di Sanremo: da martedì 4 a sabato 8 febbraio il Teatro Ariston tornerà al centro delle cronache nazionali. E, nonostante i tentativi di boicottaggio, lo snobismo di chi non lo guarda da decenni, le critiche preventive di chi avrebbe saputo fare meglio, le invidie di chi non è stato invitato, il candore di chi improvvisamente scopre che è tutta una messinscena (il fatto che si parli di “spettacolo”, però, aveva già sollevato qualche sospetto nei più avvertiti), il Festival – giunto alla sua 70ma edizione – è ancora un momento di condivisione, uno dei pochi rimasti, sopravvissuto alle epoche, a se stesso e alla cannibalizzazione della tecnologia (che, anzi, dopo un momento di disorientamento pare stia cavalcando egregiamente). Se a far parlare della kermesse è prevalentemente il contorno – gli esclusi, gli ospiti, le gaffe, i cachet – è pur sempre la musica il fulcro delle cinque giornate, e con i brani bisogna fare i conti. Nel nostro piccolo abbiamo voluto dare un’occhiata in anteprima ai testi, per vedere di che cosa parlano quest’anno gli artisti in gara. Naturalmente lo facciamo senza la pretesa di dare patenti sociologiche, né avrebbe senso considerare Sanremo lo specchio dell’Italia che cambia, per quanto, nel suo piccolo, anche Sanremo qualcosa può dire. Per esempio sorprende che la categoria dei big presenti 24 proposte, e tra queste siano almeno una dozzina i nomi sconosciuti a chi è nato prima degli anni Novanta: una novità che pare in linea con la smania di rinnovamento che si vuole leggere nel Paese.

Ma questo in fondo è solo colore: a Sanremo, si sa, si giudicano (o si dovrebbero giudicare) i brani. E allora vediamoli, in rapida carrellata, i temi di questi brani che cantano l’impegno, il disimpegno e – naturalmente – l’amore. Leggi il resto di questa voce

Le parole di Sanremo

La 69ma edizione del Festival di Sanremo non ha registrato particolari picchi, né in senso artistico, né sul fronte delle polemiche. Sul piano musicale le ventiquattro proposte spaziano come sempre dall’amore (poco) al sociale, passando per crisi interiori, malesseri relazionali, imbarazzi sociali e domande esistenziali.

Nella prima categoria c’è Arisa, che con la sua “Mi sento bene” si smarca dalle preoccupazioni con un approccio epicureo (“Credere all’eternità è difficile. Basta non pensarci più e vivere”) nel tentativo di trovare un equilibrio tra disimpegno e spessore: si tratta di «una canzone – spiega l’artista a Piero Negri sulla Stampa – che si vuole liberare di tutti i dogmi esistenziali, quando, invece di vivere il presente, elucubriamo su ciò che dovrà essere il futuro. È un inno alla leggerezza. Dice: vivi, non rimandare a domani quello che puoi amare oggi. E non chiederti come sarà la tua vita quando certi capisaldi non ci saranno più. L’importante è amare più che si può in questo momento».

Parla invece di disagio adolescenziale Daniele Silvestri, che nella sua “Argentovivo” punta il dito verso una società che ha dimenticato il valore delle relazioni. «Vedo che molti – ha spiegato il cantautore in un’intervista, offrendo una possibile lettura alternativa del brano – nel trascrivere la canzone usano Signore, con la S maiuscola. Non era mia intenzione, ma lo capisco. C’è qualcosa di religioso o di mistico nel non riuscire a spiegare cosa sia quella fiamma, quell’argento vivo del titolo, che arde dentro di noidalla nascita e che è più luminosa nell’adolescenza».

Infine si presenta delicata e profonda la proposta di Simone Cristicchi, “Abbi cura di me“, una “preghiera laica” (la definizione è sua) in cui riflette con sensibilità sul valore dell’esistenza: «la vita è l’unico miracolo a cui non puoi non credere – recita il testo – perché tutto è un miracolo, tutto quello che vedi, e non esiste un altro giorno che sia uguale a ieri… il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro; basta mettersi al fianco invece di stare al centro. L’amore è l’unica strada, è l’unico motore, è la scintilla divina che custodisci nel cuore… ognuno combatte la propria battaglia: tu arrenditi a tutto, non giudicare chi sbaglia. Perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso. perché l’impresa più grande è perdonare se stesso». Un brano che, accompagnato da un’interpretazione particolarmente sentita, si è già guadagnato una standing ovation nella serata di giovedì e potrebbe ben figurare nella classifica finale.


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Duecento anni di Stille Nacht

Alla vigilia di Natale ricorrono i duecento anni dalla prima esecuzione di Stille Nacht, uno dei brani natalizi più tradotti ed eseguiti al mondo: partito da Salisburgo nel 1818, arriva negli Usa come Silent Night nel 1859 e, più tardi, anche in Italia (nel 1937, con un titolo e un testo purtroppo completamente stravolti rispetto all’originale).

Difficile non ricordare che proprio quella melodia, ormai transnazionale, nel dicembre del 1914, durante la Prima Guerra Mondiale, diede il via sul fronte belga di Ypres-Saint-Yvon alla ormai celebre Tregua di Natale: intonando quel brano i soldati sospesero spontaneamente le ostilità e uscirono dalle rispettive trincee in un afflato di fratellanza che li portò a cantare, scherzare, condividere il cibo prima che l’orrore li costringesse, poche ore dopo, a schierarsi nuovamente su fronti contrapposti.


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Equivoci temporali

simboli del Natale – o presunti tali – vengono contestati ormai da anni da chi, con eccesso di realismo, teme possano offendere i nuovi venuti (per inciso, non si tratta di una questione di fede, ma culturale: altrimenti questi paladini della correttezza religiosa si sarebbero attivati anche in passato, per tutelare la sensibilità delle minoranze autoctone).

L’allestimento del presepe, però, quest’anno ha suscitato scetticismo anche all’interno della chiesa cattolica, se è vero che un prete padovano, Luca Favarin (grazie a Marco D. per la dritta), lo ha definito “ipocrita”. Le sue ragioni sono di carattere politico: «Il nuovo decreto sicurezza – ha spiegato a Repubblica – costringe le persone a dormire per strada, quindi l’Italia si è schierata per la non-accoglienza. Poi però, a casa, tutti bravi a esibire le statuette accanto alla tavola imbandita, al caldo del termosifone acceso». Le contraddizioni sollevate da Favarin si basano sul fatto che «il presepe è l’immagine di un profugo che cerca riparo e lo trova in una stalla».
Ferma restando la condivisibilità delle conclusioni (non si può essere cristiani solo tra i muri di casa), è interessante l’equivoco temporale presente nell’esempio di Favarin: se è vero che, con la fuga in Egitto, da bambino Gesù ha vissuto un’esperienza da rifugiato (per usare un termine attuale), è altrettanto vero che il presepe rappresenta un momento precedente. Gesù, ebreo, nacque nella terra dei suoi padri, ancorché in viaggio; confondere la sequenza cronologica pur di giustificare una tesi rischia di aprire la porta ad altre, più pericolose, strumentalizzazioni.


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Idoli e consumi

Per quanti non se ne fossero accorti nonostante la sventagliata di messaggi pubblicitari lanciati in questi giorni, siamo in tempi di Black Friday, il venerdì di forti sconti e acquisti compulsivi che negli Stati Uniti segue il Giorno del ringraziamento; e, in un mondo sempre più globalizzato, era inevitabile che il venerdì nero arrivasse anche da noi, con la sua cornice di prezzi ribassati e corse al presunto affare.

Qualche sociologo potrà spiegare come mai, negli ultimi anni, abbiano preso piede in maniera così marcata dapprima halloween e poi il black friday, mentre curiosamente manchi dal nostro calendario il Giorno del ringraziamento (tra le feste americane autunnali, l’unica con un risvolto cristiano); di certo però, come rileva Gigio Rancilio, anche il consumismo ha un suo particolare retrogusto spirituale: «nei luoghi dove si celebra il Black Friday – scrive su Avvenire – sta accadendo qualcosa di molto simile a un fenomeno religioso, che ha molti tratti in comune con le funzioni delle religioni tradizionali. Anche questo capitalismo ha un bisogno crescente di riti, liturgie, chiese, feste, processioni, canti, parole sacre, sacerdoti, comunità» e li ritrova in «un mondo liberato dal Dio biblico e ripopolato da infiniti idoli».


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L’anagrafe delle opinioni

Se è possibile chiedere all’anagrafe l’attribuzione del sesso che più ci aggrada a prescindere dalle specifiche biologiche, perché non dovremmo poterlo fare anche con l’età? Con questa motivazione un sessantanovenne olandese si è rivolto al tribunale, chiedendo di ordinare agli uffici pubblici di ritoccare la sua data di nascita: vuole, insomma, che gli vengano tolti vent’anni. L’uomo, che di professione fa il motivatore, «ha portato a sostegno della sua tesi pure le prove: i medici infatti gli hanno detto che il suo corpo era quello di un 45enne». E lui, per parte sua, è disposto ad affrontare le conseguenze del suo gesto, rinunciando alla pensione.

La sentenza arriverà tra un mese; per ora il giudice non è parso convinto ma, se non altro, ha aperto uno spiraglio ammettendo «che la facoltà di cambiare genere è un’evoluzione della legge, prima considerata assolutamente impossibile». E quindi, se non oggi, chissà che domani anche l’età non diventi solo un’opinione.


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C’era una volta il privato

Ha fatto ampiamente discutere la scelta di Elisa Isoardi, compagna del vicepremier Salvini, di comunicare il loro allontanamento pubblicando sui social una foto intima e una citazione di Gio Evan.

Prima questione: no, non siete gli unici a non conoscere Gio Evan, anzi; sul tema la reazione più strepitosa è stata probabilmente quella del vignettista e conduttore televisivo Makkox: «ho pensato che fosse una sigla per “Giovanni Evangelista“, e ho chiesto ai miei autori di leggersi tutto il vangelo per trovare la citazione incriminata».

Seconda questione, la foto: un’immagine che immortala non solo due persone, ma anche una tendenza. «Isoardi con quella foto – scrive Giulia Viscardi sulla Stampa – ha una volta di più rappresentato questa sostanza oleosa che è divenuto lo spazio pubblico, dove tutto è uguale, non ci sono ruoli, non ci sono distanze, non ci sono differenze, non c’è alto e basso, pubblico e privato; dove l’intimo di ognuno diventa spettacolo per tutti».


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